Ma esiste , all’attualità, la possibilità per i difensori di presentare atti in cancelleria in modalità telematica, ad es. un atto di appello ? E in tutti i casi in cui la legge prevede la possibilità dell’invio tramite raccomandata ? Visto che la pec sembra equiparabile all’invio cartaceo della posta raccomandata? [7]
L’art. 48 d. lgs 7 marzo 2005 , n. 82 – cd. CAD ossia ‘Codice dell’amministrazione digitale’ – così come riscritto dal provvedimento ‘correttivo’ del 2010 (d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 2359) – equipara la posta elettronica certificata (P.E.C.) alla trasmissione postale a mezzo di lettera raccomandata, capovolgendo la regola precedente secondo la quale le ipotesi di equiparazione delle due modalità di trasmissione dovevano essere espressamente previste dalla legge. Stabilisce al secondo comma che «la trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta».
Ne consegue che in tutti i casi in cui il codice di procedura penale consente l’invio di atti tramite la posta raccomandata il mezzo tradizionale può essere sostituito da quello elettronico .
Vi è di più. In teoria, tutte le memorie difensive potrebbero essere veicolate agli uffici giudiziari incorporate in un semplice file da spedire in modo digitale, poiché la Corte Suprema ha riconosciuto la possibilità alle parti di depositare memorie e richieste ex art. 121 c.p.p. anche a mezzo raccomandata. (cfr Sez. III, 21 febbraio 2008, n. 14223).
Non incide , sulla possibilità di inviare gli atti come sopra descritti, il fatto che l’art. 4 co. II DL 193/2009 convertito in L n. 24/2010 richieda l’emanazione di Decreti del Ministero di Giustizia, che, ahinoi, a tutt’oggi ,ancora sono stati emanati:<< Nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica si effettuano mediante posta elettronica certificata, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, e delle regole tecniche stabilite con i decreti previsti dal comma 1. Fino alla data di entrata in vigore dei predetti decreti, le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto.>> ; suddetta formulazione ha “suggerito” ad esempio , ai redattori del sito del Tribunale di Sorveglianza di Roma (vedi la relativa pagina http://tribsorvroma.wordpress.com/contatti) di avvertire l’utenza che << fino alla predisposizione di appositi software da parte del Ministero della Giustizia, non potrà essere utilizzata per le comunicazioni dei provvedimenti giudiziari la posta elettronica certificata. Pertanto “le notificazioni e le comunicazioni sono effettuate nei modi e nelle forme previste dalle disposizioni vigenti” (art. 4 comma 2° del D.L. 193/2009), e le comunicazione “da e verso l’utenza”, comprensiva degli avvocati, devono avvenire secondo le regole generali del codice di procedura penale e, dunque, solo con formale deposito in cancelleria.
Ma, giova ripeterlo, non si verte in tema di comunicazioni e notificazioni in via telematica e di processo telematico, bensì in tema di invio di atti a mezzo raccomandata (bastano le disposizioni vigenti) sostituibili, attesa la cennata equiparazione ex art. 48 co. II° Cad , alla pec !
Per questo, l’avviso del sito è , a modesto avviso dello scrivente , indubbiamente errato sul punto in cui stabilisce , la necessità, del decreto ministeriale , nelle comunicazioni << …da… l’utenza…comprensiva degli avvocati>>.
L’ADEMPIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI CIVILI DERIVANTI DA REATO NELLA RIABILITAZIONE (Frascati, Agosto 2013) (nota a Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-02-2013) dep 26-03-2013, n. 14351(annulla Trib di Sorv. Di Roma)
Nella valutazione che il Giudice di merito deve compiere per concedere la riabilitazione va escluso ogni riferimento alla gravità (<<odiosità>>) del fatto -reato ; la norma impone infatti di valutare solo i fatti successivi allo stesso; e neanche occorre pretendere l’integrale risarcimento del danno se vi è impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili non solo in ipotesi di accertata impossidenza economica, ma anche quando vengano messe in luce situazioni di fatto che impediscano al condannato di adempiere alle suddette obbligazioni .
Sembra che sia diffuso , in parte della giurisprudenza di merito1, l’orientamento volto ad esigere , dal condannato , un offerta reale da presentare al danneggiato , ai fini della concessione del beneficio in esame.
Il dettato normativo sembra alluda, però, ad una formula “aperta”, poiché lo nega a chi <<non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato [c.p. 185] , salvo che dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle>>. Il condannato sarà certamente onerato di fornire ogni più ampia indicazione sulle sue condizioni economiche che rendono difficile l’adempimento , ma, assolto suddetto onere , sarà poi compito del giudice di merito concederlo o meno dando conto , nella motivazione , di un iter logico che deve scostarsi dagli schemi di un rigido “automatismo patrimoniale” .
Ciò lo si dica , a maggior ragione , all’insegna della funzione premiale e promozionale che avvolge l’istituto riabilitativo 2 connaturata allo scopo di <<promuovere il ravvedimento dei rei, di confortarli con la speranza della redenzione sociale nei loro buoni propositi, di ridare ai condannati la possibilità di vivere onestamente, eliminando quegli ostacoli che provengono dalla precedente o dalle precedenti condanne>>3.
La giurisprudenza di legittimità, invero, ha sempre mostrato di sfuggire a suddetti schemi rigido-valutativi e l’ultimo arresto , che oggi si commenta, ne offre l’esempio più illuminante.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte Suprema , un condannato per delitti di terrorismo eversivo (ex appartenente alla BR), che pure si era redento con tanto di buona condotta nel periodo post-delictum aveva offerto (solo) € 2.000,00 ed il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato, anche su tal punto , la riabilitazione .
La Corte Suprema , con la decisione in commento , mostra di aderire ad un interpretazione “estensiva” del dettato normativo, in linea con lo scopo promozionale dell’istituto, lì dove offre rilevanza oltre che alle ipotesi di impossibilità oggettiva di adempimento anche alle semplici <<difficoltà derivanti da situazioni di fatto che impediscano al condannato di adempiere>> ; e se quest’ultime, da un lato, afferiscono ad es. alla difficoltà di rintracciare le persone offese dal reato dopo tanti anni di distanza dal tempus commissi delicti 4 , dall’altro sganciano totalmente la valutazione del comportamento del reo dalle regole civilistiche sull’adempimento5.
Prescindere dal diritto civile può significare , di converso, dare rilievo , ai fini riabilitativi , anche ad obbligazioni, che , secondo il codice civile sarebbero prescritte6 ed, in questo senso, la tutela della vittima del reato sembra avere una sua (alta) considerazione , anche se fatta in chiave di emenda del condannato.
Non possiamo spingerci a ritrarre una casistica delle difficoltà derivanti da situazioni di fatto che possono presentarsi al vaglio dei Tribunali di Sorveglianza (né la Corte Suprema, con la decisione in commento, offre dei suggerimenti) , essendo numerose le variabili connesse alle condizioni socio – familiari – patrimoniali degli interessati e alle dinamiche che attanagliano le persone offese : si è apprezzato ad esempio che il condannato pur non essendo indigente, non dispone di mezzi patrimoniali che gli consentano di eseguire il risarcimento stesso senza subire un sensibile sacrificio (per sé o per la propria famiglia) , o le parti offese abbiano rinunciato al risarcimento oppure sono irreperibili7; va precisato che l’ammissione al patrocinio a spese dello stato nello stesso procedimento di sorveglianza (anche se è un indice di indigenza) non può condizionare ab origine la necessità di svolgere comunque un indagine sul punto , perché in quel sub-procedimento basta una semplice dichiarazione autocertificativa8 (essendo rimessi eventuali accertamenti dell’autorità alle competenti amministrazioni finanziarie , ex art. 88 e 96 Dpr 115/2002).
In definitiva si può fondatamente affermare che ogni qualvolta l’interessato fornisca la prova9 di aver tentato l’adempimento , sempreché ricorra il primo requisito della buona condotta , non gli si può negare il beneficio perché non ha potuto tirar fuori del denaro (in aderenza alla ratio premiale e promozionale dell’istituto sopra evidenziata) ed in questa ottica va apprezzato l’orientamento “estensivo” patrocinato dalla decisione in commento e già consolidato nella recente giurisprudenza10.
Requisito (soggettivo) della buona condotta che dunque “condiziona” , in senso di renderlo più elastico, quello “oggettivo” dell’adempimento alle obbligazioni civili.
Buona condotta , per concludere , che ha come suo esclusivo punto di riferimento il comportamento successivo alla condanna : in questo senso la pronuncia si evidenzia come tranciante ogni considerazione attinente alla gravità dei fatti commessi , a cui il Tribunale di merito si era riferito.